Wembley, il sogno di una vita nel teatro più bello
Li abbiamo visti in lacrime alla stazione. Le ultime speranze strette dentro un biglietto di treno o aereo. Molti sono finiti a fare i lavapiatti nei ristoranti di Londra, altri hanno avuto più fortuna e oggi sognano e parlano in inglese. C’è pure chi ha le valigie sul letto, costretto dalla Brexit ad abbandonare un Paese in cui aveva trovato piogge e occasioni distribuite in egual misura. Prima tornare alla vita vera, alle incombenze più o meno grandi da risolvere, a studiare un modo per tirare avanti e giungere alla fine del mese, però, resta un ultimo appuntamento. Il più importante.
A Wembley, davanti a una birra, vestiti d’azzurro si ritroveranno tutti gli italiani d’Inghilterra, ambasciatori in terra straniera di cucina e cultura millenaria, altro che uova strapazzate e bacon. Saranno attaccati a un telefono nel tentativo di trasmettere ad amici e parenti l’adrenalina e l’ansia di essere nel posto giusto, in un momento che si prega sia propizio. L’Italia, a nove anni dall’ultima volta, torna in una finale europea e per cingere d’alloro la coppa avrà bisogno di sessanta milioni di cuori, registrati sulle stesse frequenze. Solo così si scalfisce il muro inglese, la fantasia di una squadra non ancora pienamente consapevole del talento di cui dispone. Gli inventori del football si troveranno di fronte i ragazzi del Mancio, meno talentuosi, ma, c’è da giurarci ugualmente, se non più, motivati.
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Nessuno, dopo la mancata qualificazione al mondiale di Russia, avrebbe messo un centesimo sull’Italia. Tranne lui. L’allenatore col ciuffo di lato e la ricerca costante dell’estetica applicata al vestiario e al pallone. Se è vero che l’abito non fa il monaco, Roberto Mancini è l’eccezione che conferma la regola. Abbandonato il catenaccio, ha rinvigorito prima il carattere dei suoi, poi ha trasmesso loro un metodo di gioco inedito per l’Italia: possesso palla, trame corte e l’abitudine insolita a fare la partita. Un progetto visionario, diventato progressivamente reale e ora chiamato alla prova del nove.
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Gliene hanno dette di tutti colori, lui ha tirato dritto e si è circondato degli amici di una vita, quelli di cui ci si può fidare ciecamente. I protagonisti dello scudetto alla Samp e della Champions sfiorata, proprio a Wembley. Con loro ha ricordato al Paese che parliamo innanzitutto di un gioco. Il suo sorriso mentre venivano individuati i rigoristi per la lotteria contro la Spagna, trasmette serenità e consapevolezza, restituisce agli italiani una squadra di cui essere fieri e un senso di normalità assente da troppo tempo.
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Da Bolzano a Trapani, i caroselli dopo il successo con le Furie rosse sono sintomo di un legame ritrovato e ostentato all’esterno con orgoglio. “L’urlo di Wembley può stritolare chiunque, ma noi siamo l’Italia e lo dimostreremo a petto in fuori e testa alta”, questo dirà il mister prima della partita, con la squadra raccolta negli spogliatoi. D’altronde, non bastarono il Monumental nel ’78, l’Amsterdam Arena tinta d’arancione del 2000 e neppure l’impressionante barriera di Dortmund a fermare gli Azzurri. Hanno voluto la Brexit, è il momento di accontentarli.