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Un anno senza Kobe Bryant

Prima della fama, del Basket e dei riflettori accesi, dei 5 anelli e degli 81 punti in un solo match, c’era stata l’Italia. Un’infanzia trascorsa a scorrazzare dietro papà Joe, a spasso su e giù per lo stivale. Sembra di rivederlo Kobe Bryant, cristallizzato nel tempo, sempre sorridente dentro magliette grandi e video a bassa risoluzione, magari sgranati ma che oggi valgono più dei diamanti. Tifava Milan e amava ripeterlo davanti ai microfoni dei giornalisti, pronti ad assalirlo, quando vacanze e tourneé riavvolgendo il nastro dei ricordi, lo catapultavano nei luoghi di una gioventù evidentemente felice. “Mi tagliassero le braccia verrebbe fuori da un lato sangue rossonero, dall’altro il gialloviola del Lakers”. Pistoia, Rieti, Reggio Calabria e nell’Emilia, dove come per generali e capi di stato gli hanno dedicato una piazza perché il suo nome non si cancelli e rimanga monito alle generazioni future. Non basterà ad asciugare le lacrime del mondo per uno schianto che grida vendetta, servirà, piuttosto a preservarne in eterno la mentalità. Lavoro e cura del dettaglio: “Mi hai chiesto impegno, ti ho dato il cuore”. Solo così, d’altronde, si diventa Black Mamba. Il serpente, per indole lungo, rapido ed efficace. “Sono proprio io”, disse in un’intervista mentre spiegava il senso di un soprannome cucito su misura e preso a prestito da un film di Tarantino. Non bastano le coppe, comunque tantissime, a quantificare il valore di Kobe, meglio leggere la sua lettera d’addio alla pallacanestro. Attaccarne il testo sui portoni delle palestre, ricordare ai bambini che i sogni ogni tanto possono anche diventare realtà.

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